sabato 25 novembre 2023

Rocco Ritchie a Milano espone la mostra fotografica dedicata a sua mamma Madonna

Milano, 26 novembre 2022 alle 17.00 Palazzo Reale

Rocco Ritchie: «Non chiamarmi col mio nome»

Nel mondo dell’arte era conosciuto come Rhed. Ma dietro lo pseudonimo si nascondeva Rocco Ritchie, figlio d’arte, artista che presto vedremo a Milano in una performance dal vivo. Qui si racconta per la prima volta.


Il ragazzo non ha mai concesso un’intervista. Ha cambiato nome e scelto di non apparire. «Sono molto orgoglioso della mia famiglia e non rinnego la mia provenienza», racconta. «Ma sono anche stanco di venire giudicato prima ancora di aprire bocca e prima ancora di mostrare quello che faccio». Rocco Ritchie ha 23 anni, dipinge da quando ne aveva 17 e il 26 novembre, con una performance artistica dal vivo, chiuderà la mostra Unveiled dei fotografi Luigi & Iango nell’Appartamento dei Principi di Palazzo Reale, a Milano. Figlio della cantante Madonna e del regista Guy Ritchie, si racconta per la prima volta e in esclusiva a Vanity Fair.

Ha iniziato con il nome d’arte, Rhed. Come e perché l’ha scelto?

«Potrei raccontarle una storia incredibile, invece lo pseudonimo viene da un romanzo che ho letto al liceo, Rhed era uno dei protagonisti. Non c’è un motivo particolare se non la necessità di venir giudicato solo per quello che

faccio e non per la famiglia da cui provengo».


Quando ha iniziato a capire che voleva essere un artista?

«Ho studiato alla Central Saint Martins School e alla Royal Drawing School di Londra. Ho iniziato a prendere sul serio la pittura quando ero adolescente. Sono figlio di quest’era digitale e come tutti mi sono sentito frustrato dalla sua cultura tossica. Ho così imparato a dirottare i miei sentimenti verso la pittura, un mezzo che richiedeva lentezza e studio e non solo velocità e superficialità. E la prima cosa che ho scoperto è stata proprio lo studio dei grandi artisti del Rinascimento».



Quali artisti hanno condizionato la sua formazione?

«Io penso che sia troppo facile guardare a un artista e al suo lavoro per trovare un’ispirazione. E trovo sia anche riduttivo parlare solo di tecnica. Ciò che mi ha appassionato, invece, era studiare come vivevano, di che persone si circondavano, come conducevano le loro esistenze, cosa sceglievano per divertirsi. È la loro vita di tutti i giorni che mi ha ispirato. Per il resto, ho avuto la fortuna di crescere a Londra, dove la proposta di artisti nelle gallerie è incredibile. E se devo fare nomi di artisti che mi appassionano, allora cito alcuni maestri del secondo Novecento come Lucian Freud, Francis Bacon, Frank Auerbach o David Hockney».


Ha debuttato con la sua prima personale giovanissimo, a 18 anni, nel 2018. Com’è stato?

«Devo essere sincero? Fu un po’ uno shock. Produrre per la prima volta una serie di opere, esporle davanti a un pubblico che mi avrebbe criticato. E soprattutto farmi la domanda più importante: ma sono davvero un pittore?».

Ha avuto paura?

«Sì. E ce l’ho ancora. Ce l’avrò sempre. Penso sia umano. E penso che quando tieni davvero a qualcosa allora devi imparare a convivere con la paura di perderla. La mia più grande paura, però, resta il fatto che le persone mi giudichino per chi sono, non per quello che faccio».

Lo fanno ancora?

«Ovvio che sì. E ogni giorno. Fa parte del gioco».

Leggendo alcune considerazioni sul suo lavoro, si parla molto della sua estetica come una reazione al problema della salute mentale della sua generazione…

«Guardi, io non voglio diventare la voce di una generazione. Lo trovo supponente. E forse quello che faccio non è nemmeno così nuovo e qualcuno potrà sicuramente dire che lo puoi trovare già in giro. Ma non è questo che m’importa».

Che cosa le importa allora?

«Quando scoppiò la pandemia avevo solo 19 anni. A quell’età la vita ti porta eccitazione, curiosità, voglia di scoprire. E invece io, come tutti gli altri, mi sono ritrovato chiuso, fermo. Non posso certo lamentarmi della mia famiglia o della casa dove vivevo. So di essere un privilegiato. Ma per quel che mi riguarda, fu un momento difficile, un momento buio. La pittura mi aiutò a uscirne. Chiudermi nel mio studio, ascoltare la musica, dipingere. Giorno dopo giorno. E costruire qualcosa che non fosse veloce e invisibile come tutto quello che vediamo sui nostri smartphone. La pandemia, quella solitudine mi hanno portato ancora di più verso la pittura e mi hanno fatto capire che c’è una via d’uscita più umana, più sostenibile, più lenta e quindi più solida alla velocità dell’era digitale».

Mi permetta di farle una domanda sui suoi genitori. Che cosa ha imparato da loro?

«Sono due persone equamente diverse e simili. Però ci sono due cose che li accomunano e che mi hanno insegnato. La prima è l’etica del lavoro. Ovvero: lavora, lavora, lavora, lavora. E poi ricomincia da capo. China la tua testa su quello che fai, su quello che ami fare. E poi lavora, lavora e lavora ancora. La seconda è: sii sempre la persona più umile nella stanza. Ascolta, impara da chi è più anziano e da chi è più saggio di te. E non pensare mai di sapere qualcosa, non pretendere di averla già vista almeno finché non avrai almeno dieci o meglio vent’anni d’esperienza in quel campo».

Come sarà la performance che farà a Palazzo Reale a Milano?

«Sarà la mia prima performance dal vivo. E sarà un prolungamento di queste fotografie, un lavoro artistico iniziato con Luigi & Iango un anno fa. Spero sarà un altro pezzo da aggiungere alla lenta e lunga formazione della mia poetica».

DI SIMONE MARCHETTI

Vanity Fair






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